GIORGIO SOFFIATO
Giorgio Soffiato è fondatore e CEO di Marketing Arena, agenzia specializzata in digital marketing per PMI e grandi aziende. Docente universitario, autore di libri sul marketing digitale e speaker TEDx.
Il dibattito tra dati e storytelling nel marketing digitale ha sempre attirato la mia attenzione di giornalista. Mi sono spesso trovata a chiedermi se la nostra ossessione per le “storie” non stesse oscurando una verità più profonda sulla natura del marketing. C’è chi sostiene che tutto sia narrazione, che ogni acquisto sia guidato dall’emozione, ma è davvero così?
Con questa domanda ho bussato alla porta di Giorgio Soffiato, imprenditore e co-fondatore di Marketing Arena. La sua reputazione di provocatore intellettuale nel mondo del marketing lo precede. Soffiato è noto per sfidare le convenzioni del settore con un approccio rigorosamente quantitativo.
L’intervista che segue è un viaggio attraverso le contraddizioni del marketing contemporaneo, dove la mitologia dello storytelling si scontra con la matematica dei dati, e dove le certezze consolidate vengono messe alla prova da una visione sorprendentemente scientifica della disciplina.
Catherine Marshall
Perfetto, Giorgio. Partiamo con la prima domanda. Il marketing è, per sua natura, una forma di storytelling: vendiamo storie, non solo prodotti. Ma in un’epoca di overload informativo e di sfiducia crescente verso i brand, fino a che punto è lecito “inventare” per catturare l’attenzione del pubblico? Dove si trova, secondo te, il confine tra creatività legittima e manipolazione?
Giorgio Soffiato
Non concordo sul fatto che il marketing sia una forma di storytelling. Il marketing si occupa di prodotto, prezzo, distribuzione e comunicazione. Negli strumenti operativi per le decisioni di marketing la misurazione dei gross rating point non ha alcun tratto di storytelling. È semmai pura matematica. Non c’è quindi alcuna invenzione e non esiste meno dignità nel marketing rispetto alla fisica quantistica. A meno che tu non abbia un’opinione, ma in tal senso ci allontaneremmo dalla scienza.
Catherine Marshall
Interessante prospettiva, Giorgio. Se il marketing non è storytelling, ma un insieme di decisioni strategiche e operative basate su numeri, allora perché le aziende investono miliardi in creatività pubblicitaria, brand narrative e customer experience? Se tutto fosse pura matematica, Apple non dovrebbe vendere “Think Different”, Nike potrebbe evitare “Just Do It” e Coca-Cola non avrebbe costruito un impero sull’idea di felicità. Se il marketing fosse solo dati e logica, non avremmo bisogno di emozioni. Stiamo dicendo che l’irrazionale non conta nel processo d’acquisto?
Giorgio Soffiato
Come di certo sai, ed è dimostrato anche da studi matematici come “the long and the short of it”, il brand è un elemento estremamente importante nel marketing. Anche il branding è misurabile con la brand equity e meta ha costruito analisi di brand lift quantitative. Credo che Coca-Cola abbia costruito un impero sul gusto e non sulla felicità. I premi Nobel hanno dimostrato che il consumatore è irrazionale, ma l’irrazionalità è parte della natura umana e non è possibile giudicare l’irrazionalità sostenendo che solo un essere razionale possa essere quantitativo.
Catherine Marshall
Se il branding è misurabile, se il valore di un marchio si può quantificare, dovremmo concludere che il successo di un’azienda come Apple dipenda più dalla sua equity che dall’emozione che genera? Se Coca-Cola ha vinto per il gusto, perché Pepsi, che in blind test viene spesso preferita, non ha scalzato il colosso di Atlanta? Mi pare che il punto centrale sia questo: l’irrazionalità del consumatore è un dato di fatto, ma il marketing non la sfrutta mai? Non cerca mai di orientarla? Se il marketing è “compiti per casa”, come dici spesso, non significa che parte del lavoro sia proprio trovare il modo più efficace di farci percepire un prodotto come migliore, indipendentemente da quanto lo sia davvero?
Giorgio Soffiato
Ritengo che tu applichi un bias per cui la percezione porti con sé una distorsione. In realtà non è così, la pressione pubblicitaria può convincere indipendentemente dal messaggio che porta. Io credo che l’errore che tu fai sia legato al correlare la pressione con la distorsione. La pressione genera memorabilità e quindi acquisto ma non è detto che questo accada con un messaggio distorto o che distorce. Come dai tanti studi dell’autore di “pensieri lenti e veloci” un blind test può essere tale anche solo per la memorabilità, quindi il mezzo, ma non per il messaggio.
Catherine Marshall
Capisco il punto: la pressione pubblicitaria genera memorabilità e quindi acquisto, indipendentemente dal contenuto del messaggio. Ma allora, se il messaggio è irrilevante, perché le aziende investono in creatività, storytelling e narrazioni emozionali? Se bastasse solo la ripetizione, perché dovremmo avere Cannes Lions e interi dipartimenti creativi? In altre parole: se il mezzo è tutto e il messaggio è secondario, significa che la qualità del contenuto non incide realmente sulle scelte di consumo?
Giorgio Soffiato
Non è così, la pressione è l’opportunità di essere visti dal consumatore. La creatività impatta sulla rilevanza agli occhi dello stesso. Ma non vi è alcuna distorsione del percepito in questa meccanica.
Catherine Marshall
Quindi, la pressione garantisce la visibilità e la creatività assicura la rilevanza. Ma se l’obiettivo è la rilevanza, non entriamo comunque nel campo della costruzione di una percezione? Non si tratta di plasmare il modo in cui il consumatore vede un prodotto? Facciamo un esempio concreto: il mercato del lusso. Prendiamo Rolex. Un orologio Rolex non è più preciso di un qualunque smartwatch da 300 euro, eppure il suo valore percepito è immensamente superiore. Questo non è frutto solo della qualità del prodotto, ma della sua narrazione: esclusività, successo, status. Senza questa costruzione, Rolex sarebbe solo un ottimo orologio tra tanti. Se non chiamiamo questo “storytelling”, come lo chiamiamo? E soprattutto: se non stiamo “inventando” nulla, perché un brand come Rolex vale miliardi, mentre un produttore di orologi altrettanto precisi ma senza narrazione non ha lo stesso impatto?
Giorgio Soffiato
Rolex si rivaluta nel tempo, vi è quindi un fattore di investimento simile all’oro. Nell’investimento in oro però non si parla di storytelling, eppure l’oro potrebbe valere come l’argento, perché vale di più. Eppure nessuno fa pubblicità all’oro. Possiamo quindi concludere che la percezione delle persone cambia anche senza marketing, comunicazione e storytelling?
Catherine Marshall
Ottimo spunto. L’oro ha valore per ragioni storiche, economiche e culturali, non per una campagna pubblicitaria ben riuscita. Ma Rolex, a differenza dell’oro, ha dovuto costruire quel valore nel tempo. Il valore dell’oro è determinato da fattori macroeconomici e scarsità, quello di un brand come Rolex è il risultato di una costruzione intenzionale.
Grazie per gli spunti che mi hai fornito, è stato interessante parlare con te. Alla prossima!
Guardando fuori dalla finestra dell’ufficio di Giorgio Soffiato, rifletto sulla nostra conversazione che ha preso una piega inaspettata. Quello che doveva essere un dialogo sul potere delle storie nel marketing si è trasformato in una riflessione profonda sulla natura stessa della percezione e del valore. La sua provocatoria analogia tra Rolex e oro ha scardinato molte delle mie convinzioni sulla costruzione del valore dei brand.
Nel ripercorrere le sue argomentazioni, emerge il ritratto di un marketing molto diverso da quello celebrato nelle conferenze di settore, non un’arte della persuasione emotiva ma una scienza rigorosa basata su pressione pubblicitaria e memorabilità misurabile. È una visione che potrebbe sembrare fredda e meccanicistica, ma che nasconde una verità più sottile sulla natura del comportamento umano.
La creatività e l’emozione non scompaiono, ma vengono ridimensionate a favore di meccanismi più basilari e quantificabili. Mentre raccolgo i miei appunti, mi chiedo se forse non sia proprio questo il contributo più prezioso di Soffiato. Ricordarci che anche nell’era della “brand love” e dello storytelling emozionale, i numeri e la ripetizione contano più delle belle storie.