NINA BARRECA
Nina Barreca, Learning Design Coordinator presso Mylia Advancing Humanity, si occupa di sviluppo organizzativo e nuovi approcci all’apprendimento.
Da tempo osservo l’evoluzione della formazione aziendale, un ambito che sta vivendo una profonda trasformazione sotto la spinta dell’intelligenza artificiale. Non si tratta solo di un cambiamento tecnologico, ma di un ripensamento radicale del modo in cui le persone apprendono e si sviluppano all’interno delle organizzazioni.
Negli ultimi mesi, confrontandomi con professionisti e manager di diversi settori, ho notato emergere una domanda ricorrente: quale sarà il ruolo dell’essere umano in un futuro dove le macchine sembrano poter apprendere e insegnare? Con questo interrogativo in mente, ho incontrato Nina Barreca, un’esperta di formazione e sviluppo organizzativo che ha dedicato la sua carriera a guidare le aziende attraverso la trasformazione digitale dei loro programmi di apprendimento.
Il suo approccio, che bilancia innovazione tecnologica e centralità dell’elemento umano, offre una prospettiva illuminante su come la formazione aziendale possa evolversi senza perdere la sua essenza. L’intervista che segue è il risultato di una conversazione che va oltre la semplice contrapposizione tra tradizione e innovazione, esplorando le sfide concrete che le organizzazioni devono affrontare per creare una cultura dell’apprendimento continuo.
Catherine Marshall
L’intelligenza artificiale generativa sta ridefinendo il concetto stesso di apprendimento: può sintetizzare informazioni, creare contenuti, personalizzare percorsi formativi. In questo scenario, ha ancora senso la formazione tradizionale? Oppure stiamo entrando in un’era in cui l’apprendimento umano è destinato a diventare obsoleto?
Nina Barreca
Non credo che l’apprendimento umano potrà mai diventare obsoleto, semmai diventano obsolete le modalità attraverso le quali apprendiamo. L’Intelligenza Artificiale può supportare l’acquisizione di competenze tecniche e operative, ma non potrà mai sostituire le dimensioni più profonde dell’apprendimento umano, come il comportamento, la relazione e il pensiero critico. È lì che bisogna puntare su forme, diciamo così, più “tradizionali” di apprendimento e lasciare che le macchine compensino in una dimensione di apprendimento più legato ad di ottimizzare i processi più meccanici.
Catherine Marshall
Quindi, l’IA può sostituire l’apprendimento umano solo sugli aspetti tecnici, mentre per quelli comportamentali serve ancora una formazione tradizionale. Ma se strumenti come ChatGPT iniziano a simulare emozioni, empatia e processi decisionali complessi, non rischiamo di sottovalutare anche qui il loro impatto? O pensi che esista un confine invalicabile tra l’intelligenza artificiale e l’intelligenza umana?
Nina Barreca
Non si tratta di sottovalutare, ma di capire dove e come utilizzare questi strumenti. L’IA non sostituirà il nostro modo di relazionarci, ma dobbiamo ridefinire il nostro ruolo. Le macchine possono simulare alcuni aspetti dell’intelligenza umana, ma non potranno mai sostituire la nostra capacità di dialogo, empatia e visione strategica. Continuiamo ad avere un ruolo molto importante e quindi, dal mio punto di vista, è fondamentale capire dove è importante mettere in atto una forma di apprendimento che ci aiuti anche a saper dialogare, a saper riconoscere tutto quello che le macchine saranno in grado di fare. Non scendiamo nella banalizzazione del fatto che adesso faranno tutto le macchine, quasi come se noi a un certo punto dovremmo fermarci, ma dobbiamo invece capire che ruolo vogliamo giocare noi persone in una fase in cui le macchine possono sì simulare qualcosa che è prettamente umano, ma non ci dovranno e non ci potranno mai sostituire se noi decidiamo di voler continuare a esercitare un ruolo chiave in tutto quello che facciamo, quindi anche in una dimensione di apprendimento. L’apprendimento deve quindi supportare lo sviluppo delle competenze relazionali e decisionali, aiutandoci a governare il cambiamento anziché subirlo passivamente.
Catherine Marshall
Quindi la vera sfida non è se l’IA ci sostituirà, ma se saremo in grado di ridefinire il nostro ruolo nell’apprendimento e nel lavoro. Ma oggi chi progetta la formazione sta davvero preparando le persone a questo cambiamento? O stiamo ancora insegnando con modelli pensati per un’epoca in cui le macchine non sapevano né apprendere né simulare il comportamento umano?
Nina Barreca
Anche qui dipende molto da cosa stiamo insegnando, perché ci sono degli aspetti che è ancora importante che noi continuiamo a insegnare in un metodo che qualcuno definisce vecchio o classico, e invece dobbiamo pensare di evolvere lì dove la nostra progettazione della formazione può e deve cambiare. È indubbio che siamo di fronte a una evoluzione e un cambiamento degli stili di apprendimento, e che non siamo più disposti come persone a trascorrere tantissime ore in aula per apprendere a utilizzare qualcosa, per apprendere un metodo che può semplificare quello che io faccio. Esistono infatti metodi molto più veloci, e qui sta la sfida per chiunque si occupi di formazione: far sì che la formazione non sia percepita come qualcosa di estraneo o avulso rispetto a ciò che facciamo ogni giorno, ma che si inserisca in modo fluido all’interno delle nostre attività. Poi ci sono invece tutta una serie di apprendimenti che necessitano di spazi altri, che non è detto che siano solo ed esclusivamente quelli digitali, quelli virtuali o quelli fruibili attraverso uno strumento e non attraverso invece una dinamica di confronto e di relazione. Pensa per esempio a quanto diventa importante apprendere attraverso una generazione condivisa di idee, frutto dello scambio di persone con diverse esperienze, con diversi saperi, che si incontrano e che ascoltandosi e confrontandosi possono veramente dar vita a qualcosa di interessante. Pensa quanto è importante lavorare sullo sviluppo del pensiero critico delle persone, e quella è una cosa che non puoi e non devi fare con una macchina, ma devi necessariamente fare allenando la tua mente. Almeno questo è il mio punto di vista.

Catherine Marshall
Stai dicendo che la formazione deve essere più fluida, integrata nel quotidiano e focalizzata su competenze che vanno oltre il trasferimento di nozioni. Ma se il pensiero critico e la capacità di confrontarsi con prospettive diverse sono così centrali, perché molte aziende continuano a investire in corsi standardizzati, spesso passivi, invece di puntare su metodi più trasformativi? È una questione di inerzia, di costi o c’è una resistenza più profonda al cambiamento?
Nina Barreca
Beh, c’è un po’ tutto di quello che tu dici, nel senso che a volte si va in quella che è la direzione più semplice, più consueta, quella che conosco meglio, quella che penso di poter presidiare, perché non si hanno le giuste competenze o le giuste conoscenze per poter affrontare dei percorsi nuovi. Purtroppo spesso dentro le organizzazioni la formazione è stata pensata come un obbligo al quale devo assolvere, devo impostare un catalogo all’inizio dell’anno che poi si svolgerà durante il corso di tutta l’attività. Spesso chi si occupa della formazione all’interno delle aziende è la persona che meno investe sulla propria formazione, e quindi ci sta che molte scelte siano dettate da questo. Fare in modo che la formazione diventi una costante nella quotidianità significa anche ripensare le logiche di una giornata lavorativa, significa ripensare all’evoluzione che i ruoli devono avere, significa dare un ruolo più attivo e meno passivo a chi fruisce della formazione. Ripensare la formazione significa ripensare il lavoro stesso. E questo ha delle ripercussioni su tutta una serie di aspetti organizzativi che devono essere messi al centro di una sana e seria discussione di evoluzione di quelle che sono anche i modi di lavorare, di quelle che devono essere le pratiche organizzative. Ed è un cambiamento culturale che non si fa velocemente, ma bisogna accompagnare le persone e l’organizzazione in questo, e penso che chi si occupa oggi di trasformazione e di formazione debba metterlo al centro del proprio ruolo.
Catherine Marshall
Quindi il vero problema non è solo il formato della formazione, ma la mentalità con cui viene progettata: un adempimento anziché un motore di evoluzione. Ma se nelle aziende chi si occupa di formazione spesso investe poco sulla propria crescita, chi dovrebbe guidare questo cambiamento? I leader aziendali? I singoli professionisti? O serve un cambiamento sistemico che parta da un ripensamento del lavoro stesso?
Nina Barreca
La formazione è una responsabilità condivisa, ecco perché io penso che chiunque debba occuparsi di formazione: chi la riceve, perché deve dare senso e valore e perché deve ricercare quella che è più utile agli obiettivi di sviluppo che ciascuno di noi deve darsi; chi la pianifica, perché deve dare anche qui senso e valore rispetto al significato che quell’iniziativa formativa deve assumere dentro un ecosistema dove c’è la persona, dove c’è un team, dove c’è poi un’organizzazione che la deve valorizzare e saper accogliere e fare crescere. I leader (che poi io oggi mi chiedo chi sono i leader dentro l’organizzazione: non siamo più in quei modelli così gerarchici dove c’è una sola persona che guida e decide) .Io penso che oggi si stia andando sempre di più verso un concetto di leadership che è diffusa, che deve essere più capillare, che non può più essere centralizzata in una sola figura. La formazione deve essere pensata, secondo il mio punto di vista, come un elemento trasversale, come un elemento differenziale. Ha un valore oggi importantissimo perché tutto evolve talmente velocemente. Siamo dentro sistemi così complessi che se non puntiamo su uno sviluppo continuo è veramente difficile pensare di potervi permanere dentro. Ecco perché è un tema che riguarda chiunque dentro l’organizzazione: ciascuno deve contribuire a dare significato e valore, chi la richiede, chi la pianifica, chi la eroga
Catherine Marshall
Quindi il cambiamento deve essere collettivo: la formazione non è più solo una responsabilità aziendale, ma un processo che coinvolge tutti, dai singoli professionisti ai leader diffusi. In un contesto in cui il lavoro e le competenze evolvono così rapidamente, il vero rischio non è l’IA, ma l’incapacità di adattarsi a un mondo che cambia.
Grazie per questa conversazione, è stato un confronto stimolante.
Ho lasciato la conversazione con Nina con una rinnovata chiarezza sul futuro della formazione aziendale. Le sue parole hanno dipinto il quadro di una trasformazione necessaria ma non scontata, dove il vero ostacolo non è la tecnologia ma la nostra capacità di ripensare il modo in cui apprendiamo e cresciamo professionalmente.
Nel ripercorrere le sue riflessioni, emerge con forza l’idea che la formazione del futuro non sarà né completamente digitale né rigidamente tradizionale, ma un ecosistema fluido dove tecnologia e dimensione umana si fondono per creare esperienze di apprendimento più efficaci e significative.
La sfida più grande, come ha sottolineato Nina, non è proteggerci dall’avanzata dell’intelligenza artificiale, ma evitare che la nostra resistenza al cambiamento ci renda davvero obsoleti. In un mondo dove le competenze evolvono alla velocità della luce, la vera innovazione sta nel creare una cultura organizzativa dove l’apprendimento diventa parte integrante del lavoro quotidiano, sostenuto da una leadership diffusa e alimentato dal contributo di tutti.
È una visione ambiziosa ma necessaria, che richiede coraggio e visione da parte di chi guida le organizzazioni. E mentre torno alla mia scrivania, mi rendo conto che forse è proprio questa la lezione più importante: il futuro della formazione non dipende tanto dalla sofisticazione dei nostri strumenti, quanto dalla nostra volontà di reimmaginarla come un processo continuo di crescita collettiva.