Fuori dal coro. Una rilettura pragmatica del ruolo del manager

SEBASTIANO ZANOLLI

Sebastiano Zanolli, manager con oltre 30 anni di esperienza, ha ricoperto ruoli di vertice in aziende come Diesel, Adidas, 55DSL e OTB.

Da tempo rifletto sull’impatto che la fiducia esercita all’interno delle organizzazioni. Non è soltanto un principio astratto, ma una leva concreta in grado di plasmare rapporti umani e dinamiche produttive. Nell’ascoltare dirigenti e professionisti di vari settori, ho notato come la questione dell’autenticità – ovvero la capacità di instaurare relazioni sincere e profonde – stia diventando sempre più decisiva per il successo di un team.

Mi sono allora chiesta in che modo un manager possa affrontare le sfide operative di ogni giorno senza sacrificare il valore del legame personale, e quale sia la linea di demarcazione tra il perseguimento di obiettivi misurabili e la costruzione di rapporti basati sulla reciprocità.
Con questi interrogativi in mente, ho incontrato Sebastiano Zanolli, un manager ed esperto di collaborazione sul luogo di lavoro in tempi di cambiamenti.

Attraverso un approccio diretto e pragmatico, Sebastiano vive il tema della fiducia come un reale investimento nel capitale umano. L’intervista che segue è il frutto del nostro confronto, intenso e a tratti provocatorio, su cosa significhi guidare un’organizzazione con uno sguardo disincantato ma al tempo stesso consapevole dell’importanza delle persone.


Catherine Marshall
La fiducia è un tema cruciale, soprattutto in un contesto lavorativo così complesso e volatile. La domanda è questa: oggi, con l’incertezza che permea le organizzazioni, come può un manager costruire una leadership basata sulla fiducia senza scadere in stereotipi o messaggi artificiosi?

Sebastiano Zanolli
È fondamentale prestare attenzione alle caratteristiche individuali delle persone e costruire con ognuna di loro un rapporto personale profondo. Questo naturalmente richiede di dedicare molto più tempo ai rapporti interpersonali, ma è esattamente ciò che serve per contrastare l’erosione della fiducia tra individui, che può essere colmata solo con uno sforzo maggiore. È una novità rispetto al passato, quando si pensava che la digitalizzazione avrebbe semplificato i rapporti tra le persone. In realtà sta accadendo il contrario: la digitalizzazione estrema genera alienazione e, di conseguenza, scarsa fiducia, rendendo difficile lo sviluppo di relazioni autentiche.

Catherine Marshall
Interessante osservazione. Ma non crede che puntare su un rapporto personale profondo con ogni membro del team rischi di essere insostenibile in organizzazioni grandi o complesse? Come si può conciliare questa esigenza con i limiti di tempo e la necessità di risultati rapidi, senza scadere in un approccio superficiale?

Sebastiano Zanolli
È proprio questa la sfida cruciale. Sono io stesso a pormi questa domanda, perché non esiste una vera alternativa: non c’è sempre una soluzione semplice a un problema complesso. Dobbiamo tornare a un rapporto più profondo e, se questo richiederà più energie, sarà necessario investirle. L’alternativa è creare luoghi di lavoro alienanti che possono essere semplicemente mantenuti. Di fatto, esistono molti esempi di questo tipo: ci sono numerose aziende in cui le persone lavorano in un clima di sfiducia, perché nessuno vuole investire nei rapporti umani. Tuttavia, si raccoglierà ciò che si è seminato, a meno che non si voglia ricorrere alla coercizione. Siamo quindi di fronte a bivi epocali, dove il risultato potrebbe essere una polarizzazione tra due tipi di aziende: quelle che potranno permettersi di assumere e trattenere i talenti, e quelle che potranno permettersi esclusivamente manodopera semplice, che non mostrerà mai vera collaborazione, ma solo mera esecuzione.

Catherine Marshall
Quindi, mi sta dicendo che la fiducia è ormai diventata una sorta di lusso accessibile solo alle aziende più lungimiranti e disposte a investire sul capitale umano. Ma non crede che questo possa aggravare ulteriormente le disuguaglianze tra le organizzazioni e nel mercato del lavoro? Come si può evitare che queste polarizzazioni diventino un ostacolo al progresso collettivo?

Sebastiano Zanolli
Questo è il punto cruciale: è una scelta dell’umanità, non una discussione sul progresso collettivo. Il progresso collettivo deve essere voluto collettivamente, ma attualmente le visioni sono diverse. Il mio ruolo non è quello di proporre una soluzione per il futuro dell’umanità, bensì quello di offrire soluzioni collaborative a chi desidera percorrerle. Non ho alcuna intenzione di convincere quella parte dell’umanità che non vuole essere convinta; voglio semplicemente illustrare quali sono i risultati di un approccio rispetto all’altro.

Catherine Marshall
Lei si concentra su chi è già predisposto a collaborare, lasciando da parte chi rifiuta questo approccio. Ma non rischia, così facendo, di lasciare che siano proprio le visioni più miopi a prevalere, semplicemente per la loro inerzia o il loro maggior peso numerico? Non c’è il rischio che questa mancanza di coinvolgimento alimenti ulteriormente il divario che lei stesso descrive?

Sebastiano Zanolli
No, non lo vedo come un rischio, ma come una naturale conseguenza dei comportamenti. Il mio ruolo non è quello del missionario o di chi converte le persone a un nuovo credo. Il mio compito è spiegare le conseguenze dei comportamenti ed eventualmente proporre soluzioni alternative a chi vuole adottarle. Se fossi un predicatore, un visionario ideologo o un capopartito, agirei diversamente. Ma in realtà sono un manager, né più né meno, come ci sono medici che curano le malattie e altri che si dedicano alla divulgazione. Scelgo con attenzione le aziende con cui collaborare, orientandomi verso quelle che rispettano l’ambiente e le persone, con una prospettiva di lungo termine per lasciare un’impronta positiva. Detto questo, una volta entrato in un’organizzazione, il mio impegno è portare a casa i risultati richiesti, non quelli che mi invento io. Non sarei disposto a fare qualsiasi cosa mi venga chiesta indiscriminatamente, ma all’interno di un’azienda che condivide i miei valori, mi dedico completamente al raggiungimento degli obiettivi concordati.

Catherine Marshall
Dunque vede il suo ruolo più come quello di un pragmatico osservatore e facilitatore, piuttosto che di un promotore attivo di un cambiamento sistemico. Ma mi chiedo: in questo scenario, non si rischia di sottovalutare l’impatto della cultura aziendale, che spesso è determinata proprio dalle scelte di chi guida? Non è compito del manager, almeno in parte, modellare quella cultura, anche laddove ci sia resistenza?

Sebastiano Zanolli
No, quello è compito del politico. Il manager esegue un progetto che gli è stato assegnato. Il manager non modifica mai le finalità di un’azienda, a meno che non gli venga richiesto, esattamente come un medico cura o cerca di curare le malattie. Se si mettesse a cercare di cambiare la mentalità di un paziente, il suo lavoro diventerebbe più simile a quello di un evangelizzatore che al suo ruolo effettivo. Un medico cura le persone indipendentemente da ciò che esse faranno in futuro.

Catherine Marshall
Capisco la distinzione che traccia tra il ruolo del manager e quello del politico o del visionario. Ma non crede che in un mondo dove il confine tra leadership e cultura aziendale si fa sempre più sottile, il manager debba necessariamente assumersi una parte di responsabilità nel plasmare quella cultura, magari anche in modo implicito? Non è forse il modo in cui si guida un team, più che le parole, a fare davvero la differenza?

Sebastiano Zanolli
No, questa è un’idea preconcetta di cui non condivido il fondamento. È una visione fuorviante del ruolo manageriale. La domanda stessa, basandosi su un presupposto che ritengo errato, risulta orientata. Le suggerirei di riconsiderare queste posizioni, poiché mi sembrano fortemente ideologizzate.

Catherine Marshall
Interessante punto di vista. Mi scuso se la domanda è sembrata orientata; era piuttosto un invito a esplorare il confine tra l’azione pratica del manager e l’influenza culturale che ne può derivare. Detto questo, secondo lei, quale dovrebbe essere l’approccio corretto per un manager nel navigare le tensioni tra la cultura esistente in un’organizzazione e i suoi obiettivi operativi?

Sebastiano Zanolli
Il compito di un manager è quello di mettere ordine e, possibilmente, di allineare gli obiettivi con la cultura interna, evidenziando i percorsi più appropriati per raggiungere un obiettivo e assumendosi la responsabilità dei risultati. Posso anche definire ciò che non rientra nel lavoro del manager: non è suo compito cambiare le regole dell’azienda, a meno che non gli venga esplicitamente richiesto o che possa dimostrare che certi comportamenti non porteranno ai risultati desiderati. Tutto il resto è ideologia e, come tutte le ideologie, non è né giusta né sbagliata, ma rappresenta opinioni su come dovrebbe essere il mondo. Queste opinioni, quasi sempre, vengono imposte da chi detiene una maggioranza, e il manager non è la maggioranza dell’azienda: è solo qualcuno a cui è stato delegato un potere temporaneo per ottenere dei risultati.

Catherine Marshall
È una visione molto chiara e netta del ruolo del manager, quasi chirurgica nella sua definizione. Mi sembra di capire che, per lei, la vera leadership consiste nell’agire con pragmatismo, senza sconfinare in ambizioni che appartengono ad altre sfere di competenza. Riassumendo, possiamo dire che il manager è un custode dell’equilibrio tra obiettivi e mezzi, senza cedere alla tentazione di ridefinire i valori dell’organizzazione, salvo che questo non rientri esplicitamente nel mandato. La ringrazio per questa conversazione schietta e stimolante.


Ho lasciato l’incontro con la sensazione di aver toccato con mano una visione molto diretta e, per certi versi, provocatoria di ciò che significa guidare un team. Sebastiano non si ritiene un portatore di valori universali, né un evangelizzatore intenzionato a cambiare le fondamenta di un’organizzazione a ogni costo. Il suo pragmatismo è disarmante. Egli si propone di creare fiducia attraverso un approccio attento alle singole persone, purché ci sia chi è disposto a investire in relazioni più profonde.

Nel rileggere le mie domande e le sue risposte, mi sono chiesta se esista un punto d’incontro tra l’aspirazione a un cambiamento culturale e la concretezza della realizzazione di obiettivi. Forse il ruolo del manager non è così netto e definito come Sebastiano lo descrive, o forse è proprio questa sua chiarezza di intenti a farcelo apparire rivoluzionario. In ogni caso, l’intervista mi ha restituito un grande spunto di riflessione sul tema dell’equilibrio tra la volontà di innovare il tessuto aziendale e la necessità di gestire il presente, che resta uno dei dilemmi più affascinanti per chiunque voglia influire, in modo consapevole, sulla realtà organizzativa.

E ho la certezza che, da queste tensioni apparentemente insanabili, nascano le occasioni più preziose per comprendere davvero il significato di leadership.

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By andreaconzato